Massimo Mariotti racconta il suo hockey

Il 16 settembre è dietro l'angolo e in quella data Massimo Mariotti ha convocato alcuni amici per giocare la sua ultima partita prima di appendere i pattini al chiodo. In questa lunga intervista ripercorre le tappe salienti della sua straordinaria carriera: quella di uno dei più grandi e longevi fuoriclasse dell'hockey su pista italiano che ha vinto tutto quello che c'era da vincere in Italia, in Europa e nel Mondo. Fra una settimana la sua carriera sarà esclusivamente quella di allenatore.

Scritto da Michele Nannini - Pubblicato il 12/09/2007 - Ultima modifica
A vederlo correre per la pista con i pattini ai piedi ad allenare i ragazzi della Juniores e della Primavera non sembra certo che sia giunto il momento di dire basta con l’hockey giocato. Invece Massimo Mariotti appenderà i pattini al chiodo fra poco, nel pomeriggio del 16 settembre, quando per salutare il più vincente giocatore italiano di tutti i tempi arriveranno al Capannino colleghi ed ex da tutta Italia e da tutta Europa.
“La serata dovrebbe essere una festa, ma le partite di addio non sono mai una bella festa fino in fondo – conferma Massimo Mariotti iniziando dalla fine il racconto della sua storia agonistica – però fa parte della vita. In pista scenderanno diciotto giocatori, ho voluto chiamare quelle persone con le quali ho condiviso i momenti migliori della mia carriera da giocatore, quindi tutti i campioni del mondo del 1986 e del 1988 e quei giocatori che ho incontrato in nazionale come Fantozzi e Barsi, che all’inizio della mia carriera mi hanno consigliato e supportato ed ai quali non posso che portare rispetto per quanto mi hanno dato. Poi ci sono quattro giocatori stranieri che rappresentano alcuni dei migliori hockeisti di ogni epoca come Victor Hugo, Pujalte, Ayaz e Joan Carles che sono state le colonne portanti delle loro squadre e che hanno vinto non so quante coppe dei Campioni.”

Quando è iniziata la tua avventura con i pattini ai piedi fra i seniores?
“Ho esordito a 14 anni in una partita di serie B con il Circolo Pattinatori Grosseto, allenatore Giuliano Poccetti, l’anno dopo sono entrato in pianta stabile nell’organico della prima squadra sempre di serie B per tre anni, abbiamo rischiato spesso di venire in serie A ma avevamo una squadra a cui mancava sempre qualcosa, fatta di molti giovani, alcuni dei quali hanno poi preso altre strade. In serie A il debutto è arrivato a Follonica, nell’anno della Panvital nel 1982, si vede che era destino che dovessi chiudere proprio qua... Un grosso rammarico che ho è quello di non aver mai potuto giocare in serie A con il Grosseto, sia per motivi tecnici e societari ma anche perché le amministrazioni comunali hanno sempre pensato ad altro e mai a dare veramente un impianto idoneo all’hockey su pista, fino a che questa disciplina poi è sparita. Adesso c’è Frosolini, un amico, che ha fatto miracoli per lo stadio di calcio, spero che a breve riesca anche a darci una pista per l’hockey ed il pattinaggio.”

Torniamo un attimo indietro, al debutto follonichese.
“Un’esperienza bellissima, ho sempre dei bei ricordi sia della dirigenza che dei giocatori e del pubblico anche se all’inizio non furono rose e fiori; nelle prime partite infatti non giocai e la squadra non andava benissimo, poi arrivò il Monza e anche in quel caso stavamo perdendo per 1-0: a un quarto d’ora dalla fine l’allenatore mi mise in pista e vincemmo per 3-1, con due miei gol. Da lì è iniziata tutta la mia avventura, che mi ha portato in Italia, assieme a mio fratello, a vincere complessivamente più di tutti.”

Un successo della tua carriera che ricordi con più soddisfazione e piacere.
“E’ sempre difficile scegliere, gli scudetti sono tutti belli, idem i mondiali conquistati, ma forse il titolo europeo di Lodi nel 1990 per me rappresenta il culmine della mia carriera visto che venni eletto anche miglior giocatore. A livello di club ce ne sono tanti, forse lo scudetto di Seregno è stato il più importante perché vincere in quella società, contro le squadre di allora si rivelò una impresa importante. E poi ci sono tanti aneddoti, tante partite o situazioni particolari.”

Ad esempio?
“Il primo anno di Vercelli: fu un passaggio di maglia travagliato, uno scambio con Marzella con lui che approdò a Monza mentre io feci il tragitto inverso. Il diesse Torazzo per acquistarmi indebitò la società anche contro il volere del presidente, dichiarando che con Massimo Mariotti arrivavano sicuramente o lo scudetto o la coppa Cers. Figuratevi cosa successe dopo la prima partita di Coppa a Lisbona contro il Benfica quando perdemmo 6-1... Lui avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni mentre io ricordo di aver promesso di vincere la partita del ritorno da solo. Alla fine non fui certo solo ma vincemmo 11-2 dopo essere stati sotto per 0-1 e segnai 5 gol. Fu una vittoria importante per tutti noi ma soprattutto per la pelle di Torazzo...”

C’è sicuramente stato anche un giorno più brutto.
“Di giorni brutti per le sconfitte ce ne sono stati tanti, ma il giorno più brutto non può che essere quello della morte di Stefano Dal Lago. Io almeno sono riuscito ad arrivare alla partita dell’addio, lui purtroppo no perché è morto a 24 anni in pista ma domenica sera sarà idealmente anche lui con noi. Quello è stato il giorno più triste anche perché arrivò dieci giorni dopo il successo al mondiale di La Coruna del 1988, fu un trauma incredibile, per sei mesi avevo sempre male al cuore quando giocavo, un male fisico oltre che morale, fu una sensazione bruttissima”.

Mariotti e la nazionale, un rapporto fatto di alti (tanti) ma anche bassi, sia nella prima parte che nell’ultimo scampolo di un paio di stagioni fa.
“Oltre che per me la festa di domenica è anche per tutti quei giocatori che hanno contribuito a dare alla Federazione due mondiali e un europeo, a costruire un periodo d’oro per questo sport ma che per un motivo o per un altro sono stati per troppo tempo dimenticati. Io ho lasciato la nazionale a 29 anni, nel pieno della carriera, perché sembrava che non ci fosse nessuno in grado di gestirmi. E’ una cosa che non perdonerò mai: un conto è uscire dalla nazionale perché è passato il tuo tempo o non hai le qualità, un conto è perché chi c’è pensa di non essere in grado di gestirti. Riguardo l’ultimo periodo ho fatto 40 giorni splendidi, abbiamo perso una finale europea ma sono convinto che con due o tre anni di tempo a disposizione sicuramente l’Italia sarebbe tornata a vincere o un europeo o un mondiale, su questo ci metto la mano sul fuoco. Non mi è stata data la possibilità per tanti motivi: futile quello di giocare perché quando è servito sono stato utile anche io, peggio sarebbe se la causa di tutto fosse l’opposizione del mondo hockeystico veneto. Ora c’è Cupisti che sta dando il massimo e gli auguro tutto il bene del mondo”.

Una scommessa che hai vinto ed una che invece hai perso nella tua carriera.
“Sicuramente una scommessa vinta, fra le tante, è quando sono tornato a Novara, nella stessa società che qualche anno prima mi aveva mandato via dicendo di me di tutto e di più: mi hanno ripagato a peso d’oro e sono riuscito a fargli vincere 3 scudetti di fila dopo 4 anni di vuoto. La scommessa più bella da allenatore è invece sicuramente quella di Follonica, con il presidente Venturi e con Pagnini: mi sono esposto parecchio per formare questa squadra ma alla fine ho avuto ragione. Un dispiacere invece è arrivato la prima volta che sono andato via da Novara, ero un ragazzo nel paese dei balocchi, un idolo vero e proprio che però è stato scelto come capro espiatorio e quindi allontanato dopo la sconfitta in coppa dei Campioni, ma c’erano altri precedenti che portarono la società a questa decisione, dei rapporti incrinati con presidente ed allenatore ma più per questioni morali che tecniche; ma la scommessa più grossa che ho perso spero non debba mai arrivare”.

Cosa è mancato alle società italiane del passato per poter vincere una Coppa dei Campioni e cosa ha avuto in più il Follonica per riuscirci in 3 anni soltanto?
“Il successo di Torres Novas è frutto di tutte le esperienze negative che ho avuto in passato, forse ci sono state altre squadre forti come e quanto il Follonica, ma quello che è sempre mancato sono state le società. Qua il primo anno abbiamo vinto tutto e la dirigenza, pur cercando questo obiettivo, mi ha messo nella condizione di avere carta bianca, senza dare troppa pressione ai giocatori ed all’ambiente. Il pubblico, la fortuna, i grandi atleti che abbiamo avuto hanno fatto il resto, ma erano fattori presenti ad esempio anche a Novara dove però la società non è mai riuscita a trasmetterci serenità e tranquillità. Un episodio: vincevamo in finale di Coppa Campioni con il Porto 5-1 a metà partita ma dopo l’intervallo siamo scoppiati a livello di testa perché tutto l’ambiente e tutta la città da mesi e mesi ci chiedevano solo quello e la società era la prima a mettersi paura. Altrimenti non si spiega perché in dieci anni una generazione come la nostra ha dominato in campo internazionale con l’Italia, ha vinto coppe Cers e coppe delle Coppe con i club ma non siamo mai arrivati alla Champions. E poi conta il peso politico che non abbiamo e non avevamo: avere contro portoghesi e spagnoli è difficile, loro possono combattersi l’uno contro l’altro ma quando c’è da accomodarsi lo fanno per se stessi, alla fine contano i voti delle assemblee, contano le amicizie, i club, basta guardare cosa è riuscita a fare la Catalogna, che non è una nazione ma ha la sua nazionale.”

Che differenza c’è fra l’hockey di quando hai iniziato e quello di adesso?
“Ogni epoca ha i suoi giocatori, quelli che sono forti ora lo sarebbero stati anche 20 o 30 anni fa e viceversa. Di certo era un altro tipo di sport con altre regole. Prima c’era più tecnica e meno fisico, oggi succede invece il contrario e si perde un po’ di fascino, certi gesti tecnici rimangono comunque sublimi e spettacolari ma arrivano da quei giocatori di quelle generazioni subito dopo la mia. E dopo che hockey sarà? Non mi entusiasma troppo il futuro, ai ragazzi quanto possibile cerco di insegnare soprattutto la tecnica e le giocate pulite.”

Come sarà vedere le partite solo dalla panchina? Tante volte in questi ultimi anni la tua esperienza è servita, e nemmeno poco.
“Se sono servito lo devono giudicare gli altri, io so perché qualche volta sono entrato in campo, ad esempio in semifinale contro il Valdagno in casa: avevamo perso in Veneto, si vinceva 2-1 ma faticando tanto, Silva era infortunato, c’erano dei problemi di cartellini e la bella comunque era tutta da conquistare e credo in quel frangente di avere dato il mio contributo mentale anche a 43 anni, di aver fornito un certo ritmo alla squadra. Il rammarico è che sono convinto che di partite come quelle ne posso giocare ancora una ventina in un anno, però smetto perché sono arrivati altri giocatori più forti di Massimo Mariotti. Avevo sempre detto che con un giocatore di livello in più a disposizione avrei chiuso senza problemi, questo è successo e coerentemente smetto di giocare.”

Certo che quella espulsione di Viareggio in gara 1 della finale scudetto ti ha privato dell’ultima gara di play off.
“Chi ha memoria storica si deve ricordare che io presi 6 mesi di squalifica per un normale fallo di gioco: Travasino a Viareggio ha preso due giornate per aver tentato di colpire un arbitro con la pallina e io sono stato espulso perché stavo richiamando i miei giocatori, perché un arbitro è andato nel pallone e non conosceva il regolamento. Chiaro che c’è rammarico, però nell’hockey di cose strane ne succedono spesso, mancano uniformità e coerenza di giudizio, troppe volte si prendono provvedimenti a seconda delle squadre che vi sono coinvolte, in 25 anni mi è capitato spesso di vederlo e nessuno può smentirlo”.

Cosa è rimasto fuori da questa chiacchierata?
“Un paio di cose importanti: il ringraziamento ai miei familiari e alle persone che nel corso della mia vita mi sono state vicino e mi hanno sopportato; un grazie a mio padre che nei primi anni mi ha forgiato, insegnato ed aiutato; infine un grande ringraziamento va alla persona alla quale mi sono ispirato come allenatore e che mi ha trasformato come giocatore di livello mondiale che è Giovan Battista Massari: purtroppo in Italia ce ne siamo dimenticati in fretta, ha sbagliato anche lui qualcosa ma dato tanto all’hockey nazionale e ancora oggi sarebbe una persona che in questo mondo ci starebbe alla perfezione.”


MASSIMO MARIOTTI: LA SCHEDA
Massimo Mariotti ha 43 anni, è nato infatti nel 1964 a Grosseto, e in oltre 25 anni di carriera ha vinto praticamente tutto quello che c’era da vincere nell’hockey italiano, europeo e mondiale. Questi i suoi successi.
Squadre di club: 4 campionati giovanili (tutti con il Circolo Pattinatori Grosseto), 9 scudetti (4 con il Novara, 1 con il Seregno, 1 con il Prato, 3 con il Follonica), 10 coppe Italia (5 a Novara, 1 con l’Hockey Monza, 1 a Prato, 3 a Follonica), 6 coppe Cers (2 a Novara, 1 a Monza, 1 a Vercelli, 1 a Seregno, 1 a Follonica), 2 Supercoppe d’Italia (a Follonica), 1 Eurolega (nel 1995 a Novara, era un torneo con le migliori sedici squadre in Europa), 1 Champions League (Follonica), 1 Coppa Intercontinentale (Follonica). In Italia ha disputato in totale 16 finali scudetto in 25 edizioni consecutive di play off a cui ha preso parte.
Questi invece i successi con la nazionale italiana: 2 campionati del mondo (1986 e 1988) su sei partecipazioni, 1 campionato europeo (nel 1990 a Lodi, quando conquistò anche il titolo di miglior giocatore), 1 campionato europeo juniores, 3 “Oliveras de la Rivas”. Inoltre ha conquistato la medaglia di bronzo alle Olimpiadi del 1992 a Barcellona quando l’hockey SU PISTA fu sport dimostrativo.


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