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Parla Livio Parasuco, allenatore del Seregno


Chiacchierata a tutto campo con l'ex portiere di Lodi, Novara e Roller Monza che oggi guida la squadra lombarda in serie A2. 'La mia generazione ha vissuto il momento d’oro dell’hockey su pista italiano!' ricorda uno dei campioni del mondo di Sertahozinho 1986.

Scritto da - Pubblicato il 03/11/2005
“La mia generazione ha vissuto il momento d’oro dell’hockey su pista italiano!” Come dare torto a Livio Parasuco, il tecnico la Semaflex Seregno ha scelto per condurre la squadra alla permanenza in serie A2?
Campione del mondo a Sertahozinho nel 1986, Parasuco vanta un ricco palmares personale di scudetti e trofei internazionali (“mi manca la Coppa dei Campioni, dove però ho giocato una finale”), un palmares che si inserisce a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, in assoluto il periodo più bello per il movimento rotellistico italiano: palazzetti gremiti, spettacolo di alta qualità, il club ai vertici continentali, l’Italia grande protagonista a Mondiali ed Europei.
Era l’epoca del dualismo, in nazionale, tra Parasuco e Alessandro Cupisti…
“Non mi sono mai sentito inferiore a Cupisti: a livello di club ho vinto di più e sono stato in nazionale a lungo prima che arrivasse lui… penso che fossimo sul medesimo livello, ma lui fu avvantaggiato dall’essere toscano in un’epoca in cui il peso dei toscani in nazionale era determinante”
L’eterno dualismo tra toscani e veneti…
“Che, intendiamoci, fa bene all’hockey: perché in quelle zone ci sono ancora oggi i migliori vivai d’Italia”.
Ancora oggi, in un momento non particolarmente brillante per il nostro sport.
“Che è fatto di alti e bassi. Prima che esplodesse la mia generazione, il quadro non era entusiasmante..”
E adesso?
“Beh, il fondo credo che l’hockey lo abbia già toccato: finito l’entusiasmo del periodo d’oro, ci si è accorti di aver lavorato poco sul movimento. Si è prestata poca attenzione ai vivai, il risultato è che da troppi anni in Italia non siano emersi campioni ed anche i giocatori buoni siano pochissimi. Per conseguenza, il campionato è imbottito di stranieri mediocri. Vedo qualche segnale di ripresa, credo che tra sei-sette anni potremo cogliere i primi frutti”.
Che il lavoro sui vivai sia importante, nella tua Trieste lo avevano capito bene…
“Come no! Quando, nel 1968 ho cominciato a giocare, avevo sette anni, ogni scuola aveva la squadra di hockey! Nelle giovanili del Dopolavoro Ferroviario eravamo un centinaio di bambini: dominavamo a livello nazionale, confrontandoci con il Breganze della generazione di Franco Girardelli e con il Giovinazzo di Pino Marzella. Poi le Ferrovie dello Stato hanno chiuso i Dopolavoro, sono venute a mancare delle opportunità. I dirigenti più in gamba sono andati in pensione, i miei compagni hanno piantato lì l’hockey ed io sono andato a giocare a Gorizia, avevo diciassette anni”
Gorizia, un’altra piazza che soffre di alti e bassi…
“Una paio di anni fa hanno trovato qualche soldo ed hanno voluto strafare: risultato, oggi non c’è hockey a Gorizia. Che, pure, è una piazza eccezionale: ho giocato la mia ultima stagione agonistica, nel 1997: c’erano mille persone a vederci in serie A2”.
Parlano di città hockeysticamente eccezionali, viene in mente Monza: tu c’eri per l’ultimo scudetto dell’era Roller…
“Avevamo vinto poco dopo la morte di Ferlinghetti… ma io non ho vissuto la realtà di Monza, ma quella di Sesto San Giovanni, dove l’hockey non si integrava. Penso che il nostro sia uno sport da piccolo paese: a Brugherio c’era un clima particolare… Comunque a Monza c’è tradizione, si percepisce…
Tanto da giustificare l’assegnazione dei campionati europei senior nella prossima estate, come qualcuno ha ipotizzato?
“Perché no? Nell’hockey tutto è possibile, e poi Monza e facilmente raggiungibile da tutto il Nord Italia”
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